The Danish Girl

Mogens Einar Wegener nacque nel 1882 in Danimarca. Frequentò l’accademia delle belle arti a Copenaghen e qui conobbe la sua futura moglie, Gerda Gottlieb. I coniugi divennero due artisti: lui specializzato in illustrazioni di paesaggi e lei di ritratti. Dopo aver girato tutta l’Europa con la loro arte, nel 1912 si trasferirono a Parigi dove lei ebbe successo collaborando con importanti riviste di moda quali Vogue. Un’esistenza come tante, fin qui.

Un giorno, però, Gerda si trovò a dover dipingere un’illustrazione di gambe di donna con calze e scarpe col tacco. In assenza di una modella, chiese al marito di posare per lei in quell’immagine che avrebbe incluso solo la parte inferiore ore del corpo. Einer accettò, ma mai si sarebbe immaginato di sentirsi così a suo agio in quegli abiti. Non solo vi si sentiva bene, ma li sentiva proprio come suoi, tanto da desiderare di indossarli sempre, e lo fece. Iniziò ad affiancare Gerda nelle feste ed eventi pubblici presentandosi come sua cognata, col nome di Lili Elbe. Posò per lei regolarmente, diventando il suo soggetto preferito nonché quello delle ignari lettrici delle riviste su cui appariva. Einer riconobbe nei vestiti da donna il suo essere donna, e decise di rendere il suo corpo femminile fuori quanto lo era dentro sottoponendosi, nel 1930, a cinque diversi interventi per la transizione sessuale, che all’epoca era ancora in fase sperimentale.

Il re di Danimarca invalidò il suo matrimonio con Gerda, e Lili venne riconosciuta legalmente come donna. Dopo la transizione smise di dipingere, perché lo riteneva qualcosa di appartenente a Einer e non a lei. Fu il primo uomo della storia a venir riconosciuto come transessuale e ad essersi sottoposto a un intervento chirurgico di riassegnazione sessuale.
 Morì nel 1931, probabilmente in seguito alle complicazioni di un intervento di installazione dell’utero, che le avrebbe consentito di avere dei figli.

Quella di Lili è una storia vera, raccontata per la prima volta nel 2001 dallo scrittore David Ebershoff nel libro “La Danese” e ora diventato un film -“The Danish Girl“-  che uscirà in Italia nel Febbraio 2016 con la regia del pluripremiato Tom Hooper.

 Cosa sarebbe successo se Einer non avesse indossato quegli abiti da donna posando per la moglie? Forse la sua esistenza sarebbe proseguita come uomo, o forse la donna che portava dentro sarebbe emersa in un’altra occasione. O forse no.

Ciò che siamo dentro, in quello spazio molto più in profondità di ciò che la società ci costruisce addosso, può rimanere soffocato e latitante a vita, oppure – con un’elevata dose di coraggio – può essere fatto passare prima da uno spiraglio e poi dalla porta principale per poterci rendere autentici.
 Chiunque nella vita indossa, prima o poi, una maschera. Qualcuno la rimuove dopo poco, qualcuno la indossa così a lungo da dimenticarsi di averla. Le persone transessuali nascono con quella maschera cucita sull’intero corpo, e affrontano prima la consapevolezza di averla, e poi il difficile percorso per scucirla, un punto alla volta. Mentre si sentono ridicolizzati perché si “travestono”, vivono la consapevolezza di spogliarsi, rivelarsi, lasciarsi esistere. Un percorso inimmaginabile per chi non ci passa almeno accanto, abbandonando il giudizio per far spazio all’empatia.

the-danish-girl

 

Cosa proveremmo svegliandoci la mattina in un corpo non nostro? Cosa proveremmo guardando allo specchio un riflesso nel quale non ci riconosciamo? Nessuna cerniera lampo dietro al collo per slacciare quest’abito sbagliato e farlo scivolare sul pavimento, lasciandoci nudi e autentici. Nessun tessuto da tagliare o da strappare per liberarci da una galera senza sbarre fisiche ma con catene durissime. Einer ha indossato quel vestito da donna in età adulta, ma c’è chi lo indossa da bambino, iniziando fin da allora una consapevolezza essenziale ma scomoda, che fa sentire prima persi e poi imprigionati.

Oggi, fortunatamente, la chiave per uscire da quella cella è stata forgiata, ma implica un cammino lungo e difficile per la persona e per chi le sta a fianco, provando dolore e fatica nell’accettare una metamorfosi che non vive in prima persona, e che dunque appare ancora più incomprensibile.
 Esiste una sottilissima linea tra il perdersi e il ritrovarsi, una linea a volte fatta da un paio di scarpe e col tacco, a volte fatta di un semplice sguardo. Ma è sempre necessario svuotarsi dal superfluo per giungere alla vera essenza di noi stessi, per scorgere l’essenziale. E che ci piaccia o no, è quella la sostanza di cui siamo fatti. A noi la scelta di ricoprirla con una fragile cartapesta da rinnovare tutta la vita o con una creta a cui plasmare la forma a intervalli regolari. Oppure a noi la scelta di farla emergere per quello che è, o meglio, per ciò che siamo. E che – inevitabilmente – sempre saremo.

32 anni, infermiera. Amo viaggiare,scrivere e leggere. Adoro Stefano Benni e il cioccolato, e sul comodino ho sempre almeno uno dei due. Ho due pesci rossi: Cacio e Pepe. Vola solo chi osa farlo.

Leave your thought