Umani, per Orlando

Lidia Bonifati è la co-fondatrice di Progetto Prisma, un laboratorio promosso dalla Rete degli Universitari di Bologna che vuole coinvolgere attivamente studenti e studentesse riguardo alla trattazione di questioni di genere e LGBT. Ha scritto questo articolo che, ringraziandola, ripubblichiamo sul nostro sito.

 

Ci sono notizie che non vorresti mai sentire.

Nel mese del Pride e della celebrazione dell’orgoglio omosessuale, un uomo spara in un gay club ad Orlando, in Florida. Uccide, da solo, 50 persone e ne ferisce altre 53, guadagnandosi il primo posto tra le stragi compiute a mano armata.

Questo tremendo episodio non è successo in un paese in cui l’omosessualità è un reato, ma nello stesso paese che ha legalizzato il matrimonio egualitario, scrivendo una delle più importanti pagine di storia dei diritti civili.

Davanti a tragedie del genere, sono tante le domande che possono venirci in mente.
La prima è: com’è possibile che questi due primati, totalmente agli antipodi, siano potuti accadere nello stesso paese?
Ma soprattutto, cosa possiamo fare?

Bastano poche ore perché i social network si intasino di articoli, post, grafiche.
Tutti inesorabilmente uguali e spesso appiattiti su mere considerazioni emozionali o inutilmente polemici.

La polemica funziona se è riempita di contenuto. Funziona se ha un seguito, se apre una strada davanti a sé, se intende scuotere gli animi e smascherare le ipocrisie di cui ci macchiamo.
Io in questo momento sono (anche) polemica, perché vorrei provare a dire qualcosa di diverso.

Immediatamente si sprecano gli hashtag.
Davanti all’ennesimo #prayfororlando o #jesuisorlando, mi riempio di rabbia e frustrazione per un’ennesima occasione mancata per fare della buona comunicazione, per far sì che questi ragazzi non siano morti invano, per far capire a tutti che non solo l’omofobia (e ancor più in generale la violenza, perché di questo si tratta) esiste, ma che c’è ancora tanto, tantissimo lavoro da fare per evitare che ne muoiano altri.

A chi scrive “#jesuisOrlando” mi verrebbe da dire: “Ma tu, proprio tu, cosa stai facendo per essere Orlando? Cosa hai fatto per essere Charlie o per essere il Bataclan? Tu come pensi di poter evitare che domani dovremo tutti essere Roma o Bologna? Cosa hai fatto o stai facendo per dare significato e concretezza alle parole di cui ti sei riempito la bocca, parole enormi come libertà, pace, dialogo?”.

Siamo davvero Orlando? Siamo davvero stati Parigi o Bruxelles?
Perché è venuto istintivo scegliere per i nostri amati slogan la parola “pregare”, invece di quella “lavorare”, “agire”, “parlare” o banalmente “pensare”?
Vogliamo essere più politicamente schierati o semplicemente più netti? Perché non si è scelta la parola “combattere” oppure “lottare”?

Orlando

Nel corso degli ultimi anni ho compreso sempre meglio perché si usa la semantica della guerra quando si parla di diritti civili.
Si lotta per conquistare i diritti che non abbiamo, che siano degli omosessuali, dei lavoratori, delle donne, dei migranti o degli studenti. Così come si è lottato per il diritto di voto o per la libertà dall’oppressore.
Si lotta con le parole, con la dialettica, con l’intelligenza, con il confronto costante con chi non la pensa come te e che magari devi convincere, perché è lui che decide dei tuoi diritti, perché è lui che ti governa.

Si lotta facendo tutta la fatica che chi usa solo gli hashtag non vuole fare.
E sai una cosa? Tutti possiamo lottare, anche tu, non solo chi vedi in televisione o leggi sui giornali.

Passata l’ondata di hashtag, si passa alla polemica sterile.
“Eh ma ora che c’entrano i gay non è come per Parigi!” oppure “Hanno un bel da dire ora quelli che ieri sostenevano che l’omofobia non esiste!” oppure ancora “Certo, però della Siria non parla mai nessuno, eppure i morti sono molti di più!”. Tutta questa polemica è certo esterna, ma anche interna a quella comunità di persone che dovrebbero essere in prima linea per produrre quel cambiamento culturale che non sarà la legalizzazione del matrimonio egualitario a completare.

Allora basta parole inutili, vi supplico. Basta polemiche e provocazioni, basta reazioni emotive fini a se stesse. I social network ci hanno relegato in un limbo in cui tutti tornano, o continuano ad essere, adolescenti. Adolescenti che scrivono prima di pensare, a cui preme solo esprimere la propria opinione e il proprio dolore, senza però fare quel passaggio ulteriore che permette di passare dal lamento all’azione incisiva.

A chi potrebbe darmi dell’insensibile senza cuore o dell’iper-razionale anche davanti alle tragedie, non pensi che 50 morti e 53 feriti mi siano scivolati addosso come se nulla fosse.
Quando dico o penso che potevo esserci anche io nascosta tra quei numeri, so che è drammaticamente vero.
Ho quasi 23 anni, sono omosessuale, e se non fossi sociopatica potrei tranquillamente frequentare una qualunque discoteca gay.
Oppure potevo essere io a suscitare questa reazione violenta, baciando la mia ragazza per strada, dato che a quanto dice il padre è stato proprio un bacio a “dare fastidio” al figlio, a farlo “arrabbiare”.

Al di là di tutto ciò che si può pensare o dire, la verità è che è tutto sbagliato.
Se viviamo in un mondo in cui l’amore “da fastidio”, vuol dire che tutto sta andando a scatafascio e che dobbiamo fare qualcosa alla svelta.
E soprattutto ciò significa che non stiamo facendo abbastanza.

Certo, non potremo mai avere il potere di controllare i folli che vanno a sparare nei locali gay, così come quelli che sparano nei campus universitari.
Però abbiamo il potere di evitare che i nostri figli, i nostri fratelli, i nostri genitori, i nostri amici, i nostri vicini di casa, i nostri colleghi di lavoro, che tutti quelli con cui abbiamo a che fare, pensino che le persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali siano sbagliate, che non meritino di amarsi, di avere le tutele che i diritti possono loro garantire.
Abbiamo il potere di evitare che pensino che sia giusto uccidere le donne perché mettono la gonna corta e quindi è ovvio che hanno provocato per prime.
Abbiamo il potere di evitare che abbiano paura di accogliere le persone che hanno un colore della pelle diverso dal nostro, forse vengono da un paese lontano, parlano una lingua che non capiamo, portano il velo o il turbante. Possiamo evitare che loro pensino che siano qui perché ci vogliono rubare il lavoro oppure minare le basi della nostra cultura o società.

E sai come possiamo evitarlo?
Non piegandoci alle banalità del male, all’ignavia o alla pigrizia.
Possiamo evitarlo avendo il coraggio di dire che qualcosa è sbagliato, anzi, pericoloso.

Ma più di ogni altra cosa, tutti noi abbiamo il potere di evitare polarizzazioni che non ci porteranno da nessuna parte e che non ci faranno vincere mai.
Non esistiamo “noi” LGBT poveri martiri contro “voi” normali, privilegiati, brutti e cattivi.
Al massimo esistiamo “noi” che vogliamo un mondo diverso contro “gli altri” con cui dobbiamo ancora parlare, per spiegargli perché non c’è bisogno di avere paura di noi, perché c’è bisogno dei diritti.

Esistiamo “noi” esseri umani, e basta.
Portare avanti il nostro “essere umani” è un impegno faticoso e quotidiano, ma assolutamente necessario.

Non c’è bisogno di pregare, c’è bisogno di parlare, di ascoltare, di discutere, di studiare.
Ora sappiamo che abbiamo altre 50 persone a cui pensare nella nostra lotta e vita quotidiana, senza dimenticarci di tutte le persone che sono vive e per cui vale la pena combattere.

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